Il Giorno
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L’Infinito
IL CONCEPT ALBUM DI ROBERTO VECCHIONI IN USCITA IL 9 NOVEMBRE 2018
A distanza di cinque anni dall’ultimo lavoro discografico (“Io non appartengo più” del 2013), il 9 novembre 2018 esce “L’infinito”, il nuovo album di Roberto Vecchioni, prodotto da Danilo Mancuso per DME e distribuito da Artist First.
Il lavoro racchiude 12 brani inediti, con musica e parole del Cantautore, disponibile in formato CD, in edizione Deluxe arricchita dal saggio “Le parole del canto. Riflessioni senza troppe pretese” e in Vinile Limited Edition.
L’album contiene l’eccezionale ritorno sulla scena musicale di Francesco Guccini che, per la prima volta, duetta con Roberto Vecchioni nel singolo “Ti Insegnerò a volare”, ispirato al grande Alex Zanardi.
Due padri della canzone d’autore si rivolgono alle nuove generazioni, in un periodo in cui tutto si dissolve nella liquidità e nella precarietà culturale, invitandole a sfidare l’impossibile. La storia del campione è la metafora della “passione per la vita che è più forte del destino”.
“Questo brano – racconta Vecchioni – si specchia direttamente in quella che è stata chiamata la ‘canzone d’autore’ e che non c’è, non esiste più dagli anni ’70. In realtà l’intero disco è immerso in quell’atmosfera perché là è nato e successo tutto. Là tutto è stato come doveva essere, cioè immaginato, scritto e cantato alla luce della cultura, semplice ed elementare oppure sottile e sofisticata, ma comunque cultura. Forse per questo Francesco Guccini (che ho fortemente voluto nel mio disco per quello che rappresenta, e lo ringrazio ancora di esserci stato), ha scelto di cantare con me”.
Un passaggio di testimone per una nuova “resistenza” che sceglie mezzi analogici: solo cd e vinile senza piattaforme streaming e download, una scelta coerente al progetto discografico che indica la volontà di non trattare la musica come prodotto di consumo veloce, scaricabile con un click, di non decontestualizzare l’ascolto del singolo brano, parte integrante della narrazione che tiene insieme ritratti diversi, da Alex Zanardi a Giulio Regeni, dalla guerrigliera curda Ayse a Leopardi, che l’autore accomuna nell’amore per la vita.
Un album manifesto, “non 12 brani – come spiega Vecchioni – ma un’unica canzone divisa in 12 momenti”, in una dimensione temporale verticale che rinvia al tema dalle suggestioni letterarie: la necessità di trovare l’infinito al di qua della siepe, dentro noi stessi.
L’album è il frutto della collaborazione di un team d’eccezione, Lucio Fabbri (produzione artistica): pianoforte, piano elettrico, organo Hammond, violino, viola, fisarmonica, basso elettrico e chitarra elettrica; Massimo Germini: chitarra classica e acustica, chitarra 12 corde, mandolino, bouzouki, ukulele, liuto cantabile; Marco Mangelli: basso fretless; Roberto Gualdi: batteria e percussioni.
Scheda album. PROLOGO di Roberto Vecchioni
L’idea dell’infinito viene da lontano, c’era già in due romanzi e una canzone. La canzone è “Le rose blu”, i romanzi sono “Il mercante di Luce” e “La vita che si ama”.
Come in una scrittura automatica, da anni mi ripetevo la stessa cosa: bisogna amare ciò che si vive, non solo la vita in sé, che è un’astrazione, ma gli atti, i gesti, le scelte, gli entusiasmi, i tonfi, i progetti che ci costruisci dentro e amarli incondizionatamente, che siano gioia o dolore, vittoria o sconfitta, pietre sparse o monumenti.
Ogni cosa che viviamo è unica. Rivissuta non è la stessa di prima.
La metafora: arriviamo ad una stazione e l’abbiamo già incontrata dieci, cento, mille volte, ma è sempre una stazione diversa al pari del paesaggio fuori che continuamente cambia, anche se abbiamo una vaga memoria di aver già visto, già provato.
Per “Una notte, un viaggiatore” (1) ho preso come spunto il romanzo di Calvino dove le storie cominciano e non si sa mai come vanno a finire. Si entra in una nebbia da cui emergono fantasmi: un luogo-non luogo dove non si capisce nulla e nemmeno si sa perché si è lì.
Nella valigia, l’unico bagaglio che ci è stato concesso, si nasconde il segreto ma la valigia non possiamo aprirla, possiamo solo immaginare cosa ci sia dentro e averne una risposta emotiva.
“L’infinito” (5) è solo in parte un disco autobiografico; dentro si muovono altri uomini e donne reali, che a volte si raccontano, a volte sono raccontati nel loro straordinario amore per ciò che si vive.
E così la storia di Giulio Regeni (4) è rivissuta nell’illusione della madre che non può crederlo morto e lo racconta con salti nel tempo, ora bambino, ora adolescente, ora uomo, sempre dolcemente addormentato lì a casa sua.
La passione di Ayse, Cappuccio Rosso (10), che va a morire contro l’ISIS è ripercorsa da lei stessa in un’immaginaria lettera dal fronte al suo amore. Niente di epico, tutto semplicemente umano.
Ricorrere al “verosimile” mi affranca da descrizioni didascaliche e mi fa sentire in parte Regeni e Cappuccio Rosso.
Poi arriva “Ti insegnerò a volare” (3) che è amore invincibile per ciò che si vive. È Alex Zanardi a parlare, a ricordare, ed è lui che spiega come fare per rialzarsi. Ritorna il “verosimile”: sulle orme di “Itaca” di Costantino Kavafis, Alex diventa maestro per dire ai ragazzi che la passione per la vita è più forte del destino. Questo brano si specchia direttamente in quella che è stata chiamata la “canzone d’autore” e che non c’è, non esiste più dagli anni ’70.
In realtà l’intero disco è immerso in quella atmosfera perché là è nato e successo tutto.
Là tutto è stato come doveva essere, cioè immaginato, scritto e cantato alla luce della cultura, semplice ed elementare oppure sottile e sofisticata, ma comunque cultura.
Forse per questo Francesco Guccini (che ho fortemente voluto nel mio disco per quello che rappresenta, e lo ringrazio ancora di esserci stato), ha scelto di cantare con me.
“La canzone del Perdono” (11) è un piccolo omaggio a Papa Francesco, (che non è mai citato, ma forse si capisce), quasi una nota a piè di pagina della mia vecchia “Stazione di Zima”.
Se mi si fa notare che chi crede nel Cielo perdona, rispondo che perdona anche chi ama il mondo.
“Vai, ragazzo” (6) è un inno alla mia malcelata passione per gli studi classici ed è anche una specie di endorsement: continuo a pensare che aiutino a tracciare una linea di confine tra vivere la vita o transitarci dentro e basta.
In “Com’è lunga la notte” (8) parlo di me a balzi nel tempo. L’ultima strofa è in terza persona, come se mi guardassi dal fuori, e allora a cantarla è il mio amico Morgan (che stimo e ringrazio).
“Formidabili quegli anni” (2), è uno scippo a Mario Capanna, ma non è il ’68 il vero protagonista.
Non si tratta neanche di nostalgie per ciò che è stato e non sarà.
Il ’68 fa solo da sfondo, in realtà parlo di com’ero io in quel periodo, dei sogni e delle speranze che avevo. Perché per me non esiste un “c’è stato” o un “ci sarà”: il mio orologio è fermo in un continuo presente, quello della mia anima e delle mie convinzioni.
Naturalmente non potevano mancare canzoni d’amore.
“Ogni canzone d’amore” (7) è un madrigale di una semplicità assoluta: mi divertiva l’idea che tutti i poeti del mondo, senza saperlo, avessero scritto d’amore per mia moglie.
L’altra canzone d’amore “Ma tu” (9), è su due piani e due tempi che s’intersecano, e due sono le donne: la prima e l’ultima. Enorme è la differenza tra un sentimento profondo e l’immagine di un sentimento ma entrambe hanno un loro posto nel cuore.
“Parola” (12) è un’elegia sulla morte del linguaggio, l’unico brano apparentemente fuori tema. Ma nella sua malinconia impotente, il finalino felliniano è messo lì a dire che la speranza non muore.
Però tutto questo è venuto dopo.
Prima c’è stato Leopardi.
Anche se sembra che sia l’ultimo a cui pensare per dimostrarmi e mostrare quello che sentivo.
E invece è stato il primo, perché lo sapevo, lo sapevo da anni.
Mi è sempre piaciuto credere che Leopardi non odiasse la vita, ma piuttosto che fosse vero l’inverso e che la sua disperazione, la sua rabbia, il suo sarcasmo fossero reazioni di un amante tradito.
E quando è a Napoli, nei suoi ultimi anni, è un altro.
Non che cambi le sue idee, no, pessimista era e pessimista resta, ma è come se all’improvviso fosse stanco del dolore, come se chiedesse una tregua al mondo, tanto che nel suo canto finale “Il tramonto della Luna” fa addirittura splendere il sole in cielo.
Mentre se ne va lo sfiora forse il pensiero che vivere sia dare tutto quello che si ha dentro, come la ginestra col suo profumo, e che l’infinito non sia al di là della siepe ma al di qua, in noi.
Lo spirito de “L’infinito” è quello di un disco degli anni ’70: non dodici canzoni, ma una sola lunghissima canzone divisa in dodici momenti.
Le linee melodiche di questo disco non sono casuali, le unisce una ricerca nell’ambito delle forme popolari, in prevalenza italiane.
“L’infinito” stesso ricalca parecchie arie pucciniane.
E così “Vai, ragazzo” è un evidente “Sirtaki”, mentre “Cappuccio rosso” evoca motivi della resistenza.
In “Una notte, un viaggiatore” c’è il mondo dei cantastorie siciliani e in “Com’è lunga la notte” quello delle frottole rinascimentali.
“Canzone del perdono” è un piccolo salmo, “Ogni canzone d’amore” (madrigale nelle intenzioni) è un valzerino che più popolare non si può. “Formidabili quegli anni”, una canzone “all’italiana”, con strofe e ritornelli e infine “Ti insegnerò a volare” una ballata all’irlandese, molto gucciniana, tant’è che tra tutte, Francesco ha scelto questa, per duettare con me.
TRACK LIST
1. Una notte, un viaggiatore – 5’31”
2. Formidabili quegli anni – 4’01”
3. Ti insegnerò a volare (Alex) – 4’34”
4. Giulio – 4’30”
5. L’infinito – 5’36”
6. Vai, ragazzo – 4’03”
7. Ogni canzone d’amore – 4’33”
8. Com’è lunga la notte – 3’07”
9. Ma tu – 4’18”
10. Cappuccio rosso – 4’56”
11. Canzone del perdono – 3’05” (non presente nel Vinile)
12. Parola – 4’11”
IL VIDEO
Il lyric video di “Ti insegnerò a volare” è realizzato da Bendo con il coinvolgimento di Ivan Tresoldi, conosciuto come Ivan Il Poeta, artista di strada, famoso per le sue “scaglie”, brevi componimenti poetici dipinti sui muri e i parapetti di Milano. Il video è disponibile da oggi sul canale VEVO ufficiale di Roberto Vecchioni.
La creazione dell’opera scaturisce da camere in movimento, dettagli e soggettive. Il mutamento della luce narra lo scorrere del tempo nell’arco di un’intera giornata.
Le immagini più evocative della creazione dell’opera si intervallano alle immagini del testo: le parole impresse dall’artista costituiscono la guida del brano. Il linguaggio è cinematografico, basato sull’armonia tra estetica e controllo dell’immagine.
Ivan Tresoldi è nato a Milano nel 1981, nel quartiere Barona, dove è cresciuto e dove ancora risiede, punto di riferimento milanese della Poesia di Strada, forma artistica in grado di superare il confine elitario dei versi per divenire pubblica e collocarsi nelle vie e nelle piazze. Oggi promuove in Italia e all’estero eventi di arte e cultura, dedicati a realtà creative, alternative e solidali.
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